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YEMA   versione testuale
di DJAMILA SAHRAOUI

 Un entroterra montuoso che porta al naturale isolamento degli individui, una madre, Ouardia, che vive da sola nella vecchia cascina agricola, tiene l’orto e bada al giovane pastore di capre suo vicino, non si tratta dell’idillio bucolico da alpeggio nostrano, ma del contesto universale nel quale le storie ataviche prendono forma di narrazione per diventare miti, leggende e drammi, come se tutte le culture avessero bisogno di una Arcadia in cui plasmare le proprie radici. Yema, in arabo, madre è il bel film di Djamila Sahraoui, un dramma contemporaneo ambientato nelle alture dell’Algeria. La madre ha perso il marito e, recentemente, il figlio Tarik, che seppellisce con le proprie mani, gli resta un secondo, disgraziato figlio, Ali, legato ai guerriglieri islamisti nascosti nei monti. A difenderla resta solo il pastore, in realtà un guerrigliero islamista mutilato ad un braccio che, armato di mitra, bada a lei più dello stesso figlio Ali. Quando il figlio torna una prima volta le affida inaspettatamente il suo bambino orfano della donna che anche Tarik amava, la seconda volta è per farsi curare da una grave ferita alla gamba dovuta ad una pallottola. Tarik e Ali amavano la stessa donna, la stessa madre, la stessa nazione, quell’amore scatena disgrazie allo come in un dramma greco, come Eteocle e Polinice che si uccisero per amore di Tebe. Ouardia non è una madre tenera, seppur amorevole è una donna che deve difendersi e tenere a bada il mondo maschile estremista e violento che la circonda. La cura del neonato diviene una priorità per lei, a costo di un nuovo sacrificio di sangue.

 

Simone Agnetti

 

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