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STILL LIFE   versione testuale
di Uberto Pasolini

Un lavoro del tutto particolare nella Londra dei giorni nostri, un regista che ne coglie qualcosa di profondo e universale ed un formidabile interprete: tre ingredienti che fanno di Still Life una prova davvero interessante. Secondo lungometraggio di Uberto Pasolini, già produttore di Full Monty e regista di quel Machan che al lido fece sorridere e commuovere insieme, Still Life è la storia di John May, impiegato comunale di south London con l'incarico di rintracciare parenti e amici di persone decedute in solitudine.
Meticoloso e solitario, Mr. May (interpretato dall'ottimo Eddie Marsan) occupa la scena con notevole grazia ed un'invidiabile aplomb, passa il suo tempo a recuperare effetti personali e fotografie negli appartamenti vuoti dei defunti e ne prepara l'estremo saluto con la passione del più vicino parente: sceglie la musica più adatta, scrive il sermone al pastore sulla base delle fotografie raccolte, accompagna la salma fino alla sepoltura nella inutile speranza che qualche (reale) parente si faccia vivo. Equilibrato e introspettivo, Still Life affronta con notevole delicatezza il tema complesso e sempre più attuale della solitudine che cede all'isolamento.
L'incedere lento e ordinato del protagonista nei luoghi della solitudine (il cimitero come l'appartamento dove lui stesso vive), la sua passione per questo lavoro che ha il gusto confortante di una vocazione, fanno di lui una presenza calda e necessaria, una speranza e una luce, quasi un tessitore invisibile dei rapporti sfilacciati della società contemporanea e, al contempo, il simbolo stesso di questa solitudine esistenziale. Del suo possibile riscatto attraverso il coraggio del contatto con il mondo esterno e i suoi abitanti. "Un viaggio del personaggio principale alla riscoperta della vita attraverso la morte", dice il regista. Unico neo, a voler essere severi: un finale un poco "facile", che cede all'improvviso al desiderio esplicito di emozionare.
 
Matteo Franzoni
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