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TSILI   versione testuale
di AMOS GITAI

 
Tsili è una ragazza che vive nel bosco. Cerca cibo e riparo come può, mentre si sente che impazza una guerra, vicina ma assente. Viene raggiunta da un uomo. Vivranno, pur coi loro stenti, in un Eden rovesciato, alla fine del mondo, rappresentato da un nido di rami come uccelli prima di emigrare. La cinepresa li scruta lentissima, ferma. Ci riporta all’assolutezza di vite perdute, agli archetipi che avevamo dimenticato. Fin qui tutto funziona nel film, le immagini di Gitai sono piene, dense, pulsano di vita. Poi però tutto cambia, nella seconda parte, sappiamo che siamo negli anni Quaranta, che centinaia di ebrei partono per la Palestina, che Tsili e pochi altri restano in un lazzaretto. Tutto viene raccontato da una voce femminile e si perde gran parte del fascino che avevamo conquistato, un fascino che stava in gran parte nello stare al di fuori della storia e del tempo, dove si poteva recuperare il senso primo e ultimo dell’essere umano. Forse si poteva essere più audaci, ancora più ambiziosi, e lavorare solo su quella parte. Sarebbe stato un film unico, difficile da condurre, ma che si starebbe insinuato indelebilmente nelle coscienze degli spettatori. Così, invece, molto di quel mistero ci viene sottratto per collocarlo in un luogo noto, che certo val sempre la pena di ricordare, ma che è altro. E affascina meno.
 
Alessandro Cinquegrani
 
 
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