Quando la vita di un essere umano è scandita da abitudini semplici e precise, la sua memoria diventa enorme, ricorda cose futili, tramanda ampi sprazzi della propria infanzia, non dovendosi occupare di altro, se non di ripetere ogni giorno lo stesso giorno. Quando la mente di un uomo vive molte esperienze diverse, viaggi e avventure, il peso di ogni singolo giorno passato schiaccia i precendenti e la memoria si accorcia, sfugge, impegnata a risolvere i problemi che mano mano si propongono. Quella raccontata dal regista tibetano Pema Tseden è una storia arcadica, Tharlo, pastore di capre, lascia le montagne con l'obbligo di fare la carta d'identità in città e s'imbatte nell'inaspettato amore per una parrucchiera.

L'oggi che Tharlo vive è un tempo poetico, sostenuto da una fotografia pulita in bianco e nero, da lunghe e fisse inquadrature e da una varia e cesellata colonna sonora di musica tibetana antica e contemporanea. Tutto è a fuoco, tutto è preciso, la sua vita tra le capre è regolare, la sua memoria è vasta. Poi il cambio di registro, lo sguardo si sporca, la lente non è più pulita, lozza al centro e sfocata sui bordi, Tharlo s'innamora e lo sguardo perde limpidezza.

Lui è un orfano ormai quarantenne, si è fatto crescere una treccia, così la gente lo chiama semplicemente “Treccia”, dal momento che comunque nessuno ricorda il suo vero nome.

Tharlo ha una buona memoria, si ricorda moltissime cose: i discorsi di Mao in cinese, il numero, il colore e il tipo di capre che pascola, tutto, tranne il proprio nome. Nel viaggio alla scoperta di se stesso Tharlo perde il senso della propria identità. La sua identità era per lui certa, la richiesta burocratica di definirla con un documento e con una fotografia lo smarrisce profondamente. Vende tutte le pecore per la sua nuova vita di coppia, col desiderio di visitare la Cina, cosa che non gli riuscirà, la sua ingenuità di pastore sarà punita dalla crudezza della vita cittadina e dall'inganno della sua amata.

 

Simone Agnetti