La macchina da presa entra in un ospedale psichiatrico - ma la definizione di manicomio sarebbe forse più adatta in questo caso - egiziano. Intervista i degenti, uomini e donne, inquadra le persone che affidano i parenti ai medici per l’internamento. Si muove con coraggiosa e discreta spudoratezza tra realtà marginali, dolorose, dimenticate. Trapela la sensazione che i cosiddetti matti non siano assolutamente tali e siano il più delle volte soltanto persone sgradite alla famiglia che vengono abbandonate in questi luoghi sporchi, trasandati e fatiscenti, dove le patologie di partenza si aggravano anziché migliorare e il rientro in società sembra impossibile. La cinematografia (e non solo) occidentale ha molto indagato la situazione di questi ospedali e dei loro pazienti, ma in un paese musulmano la scelta sembra più inusuale e coraggiosa perché come dappertutto il delirio di parole si concentra soprattutto su motivi religiosi e sessuali, entrambi difficili da trattare. Ma da questa finestra tanto particolare tutto il mondo sembra identico e alcune scene ricordano addirittura Qualcuno volò sul nido del cuculo, dove la realtà, però, si sostituisce alla finzione.