Come il precedente Tony Manero, vincitore del Torino Film Festival 2009, Post mortem è un film sullo smarrimento individuale e collettivo. Ambientata nel 1973, nei giorni del colpo di Stato in Cile, la pellicola del cileno Pablo Larraìn mette a contatto le vicende private di un dattilografo solitario che lavora all’obitorio di Santiago, invaghitosi di una ballerina in crisi depressiva, sua vicina di casa, con il destino di una nazione sconvolta dal golpe del generale Pinochet. Una coppia insignificante e senza fascino, quella formata dal dattilografo e dalla ballerina, estranei al contesto sociale e politico che sta per esplodere, fantasmi viventi di un Paese che li ignora e che loro stessi ignorano. E’ proprio questo contrasto, nutrito sul piano visivo da lunghe inquadrature e da silenzi colmi di tragica attesa, a fare di Post mortem un film sottilmente inquietante, intriso di solitudine, inadeguatezza e disperazione. Due, su tutte, le sequenze che rimangono nella memoria: quella dell’autopsia sul cadavere del presidente cileno Salvador Allende, raggelante nella sua minuziosa descrizione tecnica, e quella conclusiva, quando lo svuotamento di senso morale del protagonista, interpretato, come in Tony Manero, da Alfredo Castro, arriva a spegnere il bisogno d’amore senza ripensamenti o rimorsi, con una freddezza che diventa metafora esemplare di un Paese che ha chiuso entrambi gli occhi di fronte al male.