Una esteriorità semplice e conforme nasconde una interiorità profonda e diversa, questo è il mondo tratteggiato dalla regia esperta e poetica di Aleksei Fedorchenko. Gli ovsyanki russi sono gli zigoli, un tipo comune di passero che accompagna tutto lo svolgersi della pellicola. Come questi uccellini sono comuni ma parte tradizionale della terra russa, così l’antica popolazione degli Merya sopravvive nella più vasta cultura russa contemporanea, portando le proprio tradizioni e i propri riti nel segreto intimo del vissuto. Il regista ci racconta i giorni del funerale di una giovane donna, Tania, il cui marito Miron, aiutato dall’amico Aist, compie il viaggio dalla loro cittadina nativa per bruciare il corpo di lei sulle sponde del loro lago sacro. Tutto appare poco sacro, poco rituale e molto improvvisato, eppure, questo viaggio verso la pira funebre è il retaggio di riti antichissimi delle popolazioni della steppa russa, riti nei quali i corpi dei defunti non vengono sepolti o abbandonati, ma bruciati e poi disciolti nelle sacre acqua dei laghi. Al posto del carro rituale decorato un grigio fuoristrada, al posto della pira di legna di bosco, un cumulo di manici di badili industriali, al posto delle bevande rituali, bottiglie di vodka comprate al supermercato, ma il punto di vista nel quale la porta dell’aldilà e dell’eternità scorre sul fondo dei fiumi, non cambia. Il viaggio è l’occasione per narrare l’intimità tra i due ex-coniugi all’amico, delineando così il contenuto spirituale del corpo immobile che trasportano. Bello, poetico, estetico e giustamente lento, il film è nel pieno del solco del nuovo cinema russo, un cinema nel quale la ridefinizione dei confini territoriali, mentali e culturali è ancora in atto ed è fonte di ispirazione per molti cineasti.