Il manicomio visto da dentro. Dalle protettive mura che contengono i matti e anche di più: dalla prospettiva di un matto, inconsapevole di esserlo. Celestini mette sul grande schermo uno dei suoi cavalli di battaglia teatrali: due ore di affabulazione pura che riempiono la sala servendosi, adesso, oltre che della corporeità del protagonista, anche di tutto ciò che la scatola magica del cinema offre. È “La pecora nera”, storia di Nicola, che cresce tra le galline della nonna, con le cui uova la anziana si faceva benvolere da tutti, e che diventa familiare con il manicomio delle suore, istituto in cui sua madre stessa è ricoverata e in cui la donna muore. Nicola è un bambino sensibile, facilmente influenzabile, abituato a stare con gli adulti e a fuggire, fantasticando, dalla stessa realtà materiale in cui è quotidianamente immerso. La pazzia, forse, inizia proprio così. Come un espediente, un fatto quotidiano. E Nicola finisce a vivere in manicomio… Per Ascanio Celestini, al suo esordio cinematografico, prova superata: il tema, la pazzia, trova una chiave di lettura inedita; la macchina da presa è strumento invisibile a servizio della focalizzazione interna; il plot scorre intrecciando passato e presente; il racconto sa coinvolgere lo spettatore fino al disvelamento finale dell’identità reale del personaggio; il tono è tenero e ironico a un tempo, come Celestini ha abituato il suo pubblico. Bravo Giorgio Tirabassi, solido e credibile co-protagonista. Chiara la critica al sistema manicomiale in cui comportamenti e patologie venivano confuse per vigliacca pigrizia o per il semplice quieto-vivere delle persone “normali”, che poi, viste con gli occhi del “matto”, tanto normali non sono…