Ironia affilata in confezione perfetta quella del film in concorso in cui Solondz racconta i tormenti di Abe, bamboccione americano di famiglia ebrea che porta evidenti sul grande schermo tutte le contraddizioni a cui può costringere la società contemporanea. Al centro di un mondo apparentemente ordinato e luminoso, Abe è infelice. Pecora nera della famiglia, vive il conflitto mai risolto con il fratello (più alto, più intelligente, più bello e laureato), quello con il padre di cui è braccio destro in azienda ma di cui non riesce a realizzare le ambizioni, quello con se stesso, incapace di dare una svolta alla propria esistenza. In un susseguirsi di scene che rappresentano il mondo di Abe comè e come lui vorrebbe che fosse, il film induce allironia, immediata a amara. Anche se finge di non accorgersene, Abe sa di essere il ronzino su cui nessuno dei suoi avrebbe scommesso (laddove il fratello è il cavallo vincente), e cerca in modo naif di rovesciare il destino da perdente. Lo sguardo spietato del regista, tuttavia, non fa che ingigantire e rendere cinicamente ridicolo lo scarto patito ma non metabolizzato tra ambizioni fantastiche e fallimenti reali del protagonista. Il regista indipendente della black comedy americana, per la terza volta al lido dopo Palindromes e Perdona e dimentica, dà così il suo contributo alla Mostra di Venezia68.