Secondo capitolo, dopo Paradise: love, presentato a maggio a Cannes, di una trilogia sulla felicità, Paradise: faith, in concorso qui al Lido, propone un personaggio già corroso in partenza da unossessione, quella religiosa: una donna di cinquantanni, fervente cattolica, che destate va di casa in casa con una statuetta della Madonna invitando gli inquilini a respingere con forza ogni occasione di peccato. Il rapporto con la religione e coi suoi simboli, a cominciare dal crocifisso, nel film di Seidl è del tutto pretestuoso, così come il fatto che il marito della donna, che un giorno rientra a casa dopo una lunga assenza, sia musulmano e disabile. Lapproccio alla fede, perché di questo dovrebbe parlare Paradise: faith, fin dal titolo, è davvero riduttivo, condensato in unottusa devozione amplificata ulteriormente da unironia di grana grossa che, con evidente astuzia, punta a stabilire il contatto empatico con lo spettatore. Niente a che vedere, insomma, con un altro film austriaco, Lourdes di Jessica Hausner, che sempre a Venezia, due anni fa, aveva affrontato il rapporto con il mistero con ben altra sensibilità. Dubitando del sacro, ma senza deriderlo.