Questa non è, almeno esplicitamente, la storia del padre del regista, ma quella di Munio. Falegname ebreo polacco, trasferitosi a Berlino all‘inizio degli anni Trenta, per studiare nella prestigiosissima Bauhaus di Gropius. Ma è il tempo dell‘ascesa di Hitler, Munio viene prima imprigionato e poi espulso. La sua decadenza è la decadenza dell‘intero spirito della Bauhaus, che prevedeva un‘armonia tra architetti e costruttori, tra il creare e il fare. Così Munio giunge in Israele, ma resterà insostenibilmente ancorato alla sua Europa. Il film è difficilmente inquadrabile in un genere o uno schema. A tratti è un documentario, che registra ricerche d‘archivio, interviste, documenti editi e inediti, a tratti è una fiction che drammatizza alcuni passaggi della storia, come quella che condanna il protagonista al carcere nazista. A tratti, infine, è una composizione di immagini e sequenze allusive, ma meno dirette. E sono queste ultime che funzionano meglio, perché Gitai distende il suo talento visivo che abbiamo imparato a conoscere negli anni. Il resto nasce chiaramente da esigenze private, da un‘urgenza che non trova una forma adeguata, da un‘intensità emotiva diversa tra regista e pubblico, che pesa nell‘economia dell‘opera e provoca qua e là un ristagno narrativo difficilmente tollerabile.