Il Leone d‘oro della scorsa edizione del festival (Pietà) torna al Lido con Moebius e lo fa decisamente a modo suo, superando, anzi, se stesso nell‘uso di immagini esplicitamente violente, scandalose, disturbanti, anche per lo stomaco. Tanto che il Moebius del festival viene riprodotto nella versione integrale, mentre in patria (e nelle nostre sale italiane) il film verrà proiettato con una ventina di scene tagliate. La storia è presto raccontata: una moglie tradita dal marito tenta inferocita di eseguire la propria punizione sull‘uomo cercando di evirarlo, ma - essendo scoperta - rivolge le proprie "attenzioni" verso il figlio riuscendo con quest‘ultimo nell‘impresa di vendicare la propria profonda rabbia. Inizia quindi la ricerca in internet del padre che trova, prima una soluzione alternativa al piacere sessuale, efficace ma dolorosissima (strofinare una pietra su una parte del corpo), poi la possibilità del trapianto del proprio organo al figlio. Non poteva mancare, a trapianto riuscito, l‘incesto (seppur solo sognato), dato che il figlio non prova piacere se non alla vista e al contatto della madre. Il figlio troverà infine la pace auto-evirandosi nuovamente con la pistola del padre che ha appena colpito a morte i due genitori. Lo troviamo in preghiera di fronte ad una vetrina piena di statue sacre "depurato" da ogni desiderio di piacere (e di violenza). Un film pressoché muto, nel quale la pregnanza e la violenza delle immagini, come sempre accade nei lavori del regista coreano, sono talmente accentuate da non aver bisogno di dialoghi. Una pellicola, quindi, interessante per la ricerca del nesso tra piacere sessuale e dolore fisico e per l‘indagine sui risvolti "psicanalitici" inquietanti dei rapporti familiari, ma che pure non raggiunge le vette artistiche di Pietà né di altre opere precedenti del regista. Moebius, infatti, rimane soffocato da un magistrale autocompiacimento stilistico, che manca però di approfondire gli argomenti sul tappeto, regalando una boccata d‘aria fresca solo in qualche scena abilmente confezionata per far scoppiare, come una liberazione, la risata del pubblico altrimenti sopraffatto dalla crudezza delle immagini e dei temi affrontati. Matteo Franzoni